In quei vicoli stretti c’è sempre poca luce. Il sole non riesce a insinuarsi nelle strettoie di Napoli. Ma in compenso il vento soffia forte e asciuga il bucato steso alle finestre. Le persone parlano a voce alta da un balcone all’altro, a tratti urlano per sovrastare i rumori della città. Il Rione Sanità è il dipinto della Napoli popolare. Quella disordinata e caotica, in cui la povertà diventa esclusione sociale. Quella da cui è difficile uscire e che ti porti addosso. Non si limita alla superficie, ma si espande nel sottosuolo, luogo di ipogei ellenistici e catacombe paleocristiane, come quella di San Gennaro e San Gaudioso. È una necropoli sotterranea, in cui il cimitero delle Fontanelle ospita le vittime della Grande Peste del 1656 e del colera del 1836. È qui, all’ingresso del Borgo dei Vergini, nella chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi, dedicata al primo vescovo della città e ricostruita nel XVIII secolo, che il giovane scultore Jacopo Cardillo, in arte Jago, ha aperto il primo museo dedicato alle sue opere.
Chi è Jacopo Cardillo, in arte Jago
A 24 anni è stato selezionato da Vittorio Sgarbi per partecipare alla 54a edizione della Biennale di Venezia, dove ha esposto il busto in marmo di Papa Benedetto XVI, che gli è valso la Medaglia Pontificia. Quando il Papa nel 2013 annunciò le sue dimissioni, l’opera fu spogliata degli abiti papali prendendo il nome di Habemus Hominem.
In una prima fase della sua carriera non aveva abbastanza denaro per comprare il marmo. Si recava in un fiume e recuperava dei sassi, scarto del processo di cavatura del marmo. “Ho riconosciuto che il fiume era stato scultore a sua volta. Mi sono chiesto quanto valesse il mio intervento su qualcosa che era già stato scolpito e lavorato. Ho deciso dunque di lasciare al sasso una memoria”. Sono nate così le “opere all’interno dei sassi” come Scheletro, in cui mettendo tutte le fette una affianco all’altra si ricompone il sasso naturale.
Il Guardian lo descrive come “il nuovo Michelangelo”, che ha riportato la scultura nel ventunesimo secolo. E le opere di Jago, che restano fedeli alle tecniche del Rinascimento italiano, dialogano davvero con il tempo che abitano. Osservano, prima di esprimere. Trattengono, prima di comunicare. Decostruiscono, prima di costruire. “Per scolpire qualcosa bisogna prima romperla”, dice Jago. “Camminando tra le mie opere esposte riconosco anche i miei fallimenti, che sono come le cadute che un bambino deve affrontare per imparare a camminare”.
La scultura che diventa simbolo
Il fallimento non è solo personale, ma collettivo. Così Napoli, una mattina di novembre 2020, si sveglia con un’opera che raffigura chi non ha voce. Con il cordone ombelicale che lo incatena al suolo di Piazza Plebiscito, un bambino in posizione fetale è rappresentazione delle catene della marginalità. Si tratta di Look down, guardare in basso.
“Immaginarsi centrale in mezzo a una piazza è qualcosa di incredibile. A Piazza Barberini a Roma, dove oggi c’è la Fontana del Tritone, un tempo non c’era nulla, se non la campagna. In questo senso, fare scultura significa cambiare le dinamiche di un luogo: diventare simbolo per un contesto e generare attorno il contesto stesso”.
Meno di un anno dopo, sul Ponte di Castel Sant’Angelo a Roma, viene installata durante la notte la scultura che raffigura un giovane profugo che dorme in strada. La scelta del luogo è simbolica: il rifugiato si trova nel crocevia tra la Basilica di San Pietro e l’antica prigione. Il nome dell’opera preannunciava già il suo destino: In flagella paratus sum, (sono pronto al flagello). Dopo poche settimane, infatti, l’opera è stata distrutta. “Siamo in grado di fare una carezza, ma anche di deturpare”, dice Jago. “Ma l’atto vandalico è un valore. Il gesto degli altri continua la narrazione dell’opera stessa. Con il tempo, i nostri significati spariscono. Le cose che lasciamo diventano contenitori per i significati degli altri”.
La pietà, Il figlio velato e Aiace e Cassandra: le immagini classiche che raccontano la contemporaneità
E poi padri che raccolgono i figli dopo i bombardamenti. Per noi cresciuti dalla parte giusta del mondo è questa l’immagine della guerra in Siria. “Al telegiornale non c’era altro argomento”, racconta Jago. “Quelle immagini mi colpivano perché le guardavo mentre pranzavo. Da una parte provavo il gusto e dall’altro il disgusto. Questo genera passività. Non si riesce a concentrarsi sul disgusto, perché lo si accompagna e lo si stempera con il gusto”. Così è nata La pietà, così è nato anche Il figlio velato. “In un’era di bulimia di immagini, mi sembrava importante dare loro un peso”.
Lo scultore parte da un’immagine letteraria con la sua ultima opera: Aiace e Cassandra, la violenza sulla “vergine priamea” raccontata da Virgilio nell’Eneide. Ma rispetto alla statuaria classica, in cui l’espressione della donna è quasi sempre passiva e abbandonata, nel volto della Cassandra di Jago non c’è accoglienza, ma resistenza.
Napoli, la casa in cui si scolpisce l’umanità
Le opere di Jago hanno trovato una casa, quella in cui “si scolpisce l’umanità”. “Se dovessi racchiudere in una sola parola quello che sento per Napoli, parlerei di innamoramento”, continua l’artista. “Analizzare il motivo per cui ho deciso di aprire il mio museo qui sarebbe un tradimento terribile.
L’innamoramento è follia, tradurlo significherebbe banalizzarlo. Innamorarsi di un luogo significa renderlo moltiplicatore di qualcosa di sconosciuto. Questo avviene sia nella dimensione delle ombre, sia in quella delle luci. Poi c’è la dimensione del mistero, e quella va protetta. E io difendo questa città”.