Primo alpinista a essersi cimentato nella pittura a olio in vetta, nella sua lunga carriera Gabriel Loppé ha raccontato sulla tela le Alpi occidentali di fine ’800. Una preziosa testimonianza esposta al Forte di Bard fino al 1° maggio.
Se di recente siete stati a Chamonix, con tutta probabilità avete sentito parlare del Ghiacciaio dei Bossons e di quel lago che, formatosi ai suoi piedi dal 2018, preoccupa molto chi studia i danni del riscaldamento globale. Al posto di quello specchio d’acqua comparso a 1.700 metri di quota, oltre un secolo fa scintillava la neve perenne adagiata tra i crepacci come una candida coperta di velluto. Ce lo raccontano le fotografie dell’epoca, ma anche i disegni e i dipinti di chi per di là è passato e ha documentato. Primo alpinista a essersi cimentato nella pittura a olio in vetta, Gabriel Loppé (Montpellier 1825 – Parigi 1913) fa parte di questa categoria. I suoi oli su cartone realizzati en plein air sul Monte Bianco (e non solo) tra il 1860 e l’inizio del XX secolo sono il nucleo di una mostra che fa viaggiare nel tempo e nello spazio. Aperta fino al 1° maggio al Forte di Bard (Museo delle Alpi, Bard, Aosta), l’esposizione «Gabriel Loppé, artista, alpinista e viaggiatore» (a cura di Anne Friang dell’Associazione Amis de Gabriel Loppé e William Mitchell della Galleria John Mitchell di Londra) raccoglie oltre cento opere tra tavole, tele, disegni, fotografie e oggetti prestati da collezioni private e pubbliche.
Una rassegna di paesaggi così accurati e realistici da sembrare ritratti (uno su tutti: Crepacci sulla Mer de Glace ai piedi dell’Aiguille des Grands Charmoz, Francia, 1885). I ritratti di una natura tanto ostile quanto viva e in continuo mutamento, fatta di creste scoscese, cieli vorticosi, torri di roccia e nuvole su cui compaiono, di tanto in tanto, piccoli puntini neri. Sono gli alpinisti in cordata (Ascensione al Monte Bianco), emblema di quel limite e di quella finitezza umana che Loppé inserisce nel dipinto quasi come un memento mori (ricorda che devi morire, o, in questo caso, ricorda che non sei onnipotente). A evidenziare questo limite è il confronto con le vette, in primis il Cervino, montagna alpina per antonomasia cui Loppé dedica un primo ritratto ufficiale nel 1874 (Il Cervino visto dal Gornergrat, Svizzera). Una tela monumentale di quasi 4 metri per 3 dipinta, con tutta probabilità, nelle ore pomeridiane.
L’artista, del resto, è abituato al freddo e alle alte quote. Dopo aver scoperto, a 17 anni, la gioia della pittura en plein air scalando una piccola montagna, il Pic Saint-Loup (658 mt) vicino alla fattoria di famiglia a Pézénas, Loppé trascorre oltre mezzo secolo a salire e discendere le vette. È il 1849 quando l’artista, già allievo del pittore Francois Diday a Ginevra, si trasferisce sulle Alpi e si cimenta nelle prime escursioni a Chamonix, alla Mer de Glace e al rifugio dei Grand Mulets (il suo punto panoramico preferito), sul versante settentrionale del Monte Bianco. Carico della sua attrezzatura (basi di carta, tele, pennelli…), lavora anche a 5.000 mt, tra la nebbia e le rocce (come nel caso degli oli su cartone La cima del Monte Bianco, versante nord e La cima del Monte Bianco, versante sud, 1868, entrambi 30×40).
Quando non soggiorna in qualche rifugio, le sue escursioni giornaliere – da giovane ma anche da sessantenne – comprendono oltre dieci ore di camminata e scalata e un paio d’ore di pittura. A quelle altitudini Loppé è costretto a lavorare in fretta, con pennellate fugaci e ampie. Perché il meteo è spesso sfavorevole. Non a caso, nell’agosto del 1881– mese di intenso maltempo sulle Alpi svizzere – il maestro tiene pure un registro delle condizioni climatiche. Scrive anche dei diari di viaggio molto stringati delle proprie imprese, a cui partecipano guide alpine, amici, portatori e talvolta familiari (Loppé si sposò due volte ed ebbe tre figli). «Escursione fino ai Grands Mulets con Benoni e Monard – annota l’artista il 19 agosto 1883 –. Partenza alle 7:00, arrivo ai Grand Mulets alle 13:00, ritorno alle 15:20. Arrivo a Chamonix alle 19:30. Tempo molto bello».
Dopo la prima scalata del Monte Bianco nel 1861 (in mostra al Forte di Bard è esposto il bastone da montagna utilizzato per l’occasione, assieme a corde da arrampicata, ramponi e fiaschetta), Loppé tornerà sul Massiccio altre 40 volte. Non a caso all’Alpine Club di Londra, dove il pittore accede a 39 anni, lo soprannominano «il pittore di corte di Sua Maestà il Monte Bianco». «Nessuno più di lui seppe cogliere lo spirito spensierato dell’epoca in cui il turismo e l’alpinismo erano agli albori. Quando entrava in una stanza, portava con sé le Alpi – lo ricorderà l’associazione nella sezione “In Memoriam” della rassegna annuale, dopo la sua morte avvenuta nel 1913, a 87 anni –. Oltre alla sua passione per la montagna, aveva un atteggiamento particolarmente franco e cordiale, vera espressione della sua indole. Pieno di vita e di energia, era di buona compagnia».
Non solo Alpi
La vita di Gabriel Loppé, però, non ruota solo intorno alle Alpi. Nonostante il legame con Chamonix, (dove trascorre tutte le estati dal 1849 al 1912), con Ginevra e Zermatt (dove apre degli studi) e con Londra e Parigi (dove trova amici e acquirenti), una parte delle opere del maestro trae ispirazione dai suoi molti viaggi in Inghilterra, Scozia, Italia e Francia. Spinto anche dalla paura di ripetersi («Sono obbligato a sfornare più immagini e devo sforzarmi di variare il mio contenuto. Le solite vedute di Chamonix, di Zermatt e dell’Eggishorn finiscono per stancare i visitatori – e anche me» scrive alla figlia Aline nel 1886), Gabriel Loppé sul finire del XIX secolo inizia a dipingere scogliere rocciose, tramonti marini e persino una veduta cittadina (in mostra al Forte di Bard: La costa rocciosa ad Antibes, Francia, 1880; Balmacara davanti all’Isola di Skye, costa occidentale scozzese, 1882; Tramonto vicino a Nizza, Francia; Panorama da Montmartre, Parigi).
Dopo il trasferimento nella capitale francese, il pittore si avvicina a un’altra arte, seppur da dilettante. «Ho iniziato a scattare alcune fotografie soprattutto per avere qualche ricordo dei miei nipoti» spiegherà l’artista che, a partire dal 1892, immortala chiari di luna, effetti di nebbia e notturni cittadini alla luce dei lampioni (è tra i primi fotografi a raccontare Parigi illuminata dall’elettricità). I suoi scatti (in primis quello più famoso della Tour Eiffel colpita da tre fulmini, 1902), che regala agli amici e ai familiari, raccontano il talento e la passione di un testimone della modernità. Poco importa allora se per comunicare l’artista utilizza pennelli o un obiettivo, se sceglie come soggetti delle proprie opere vette innevate o scorci di civiltà. «Il paesaggio – a detta di Gabriel Loppé – non è che la forte sensazione provata dall’artista, il soggetto non è nulla senza il sentimento personale e individuale del pittore o del poeta che realizza l’opera». Se è vero, parafrasando Edouard Manet, che l’uomo (e, aggiungeremmo noi, ancor più l’artista) «deve essere al passo coi tempi», non c’è dubbio che Gabriel Loppé, nella sua vita, abbia assolto appieno questo compito.