Islanda, terra di ghiaccio e di solitudine, di monti innevati e nebbie magiche, di luce solare accecante e di tempeste spettrali. Cavalli selvaggi corrono lontani nel vento, indomiti, fieri, sensibili a ogni minaccia. Il cielo benedice di bellezza la fattoria, ma la circonda di un’atmosfera indifferente, incombente, paralizzante. Due pastori e coltivatori moderni, Ingvar e Maria, marito e moglie, vi lavorano con fatica, arando i terreni, gettando semi su zolle indurite dal ghiaccio, accudendo le splendide pecore da cui ricavano lana preziosa. Vivono con questi animali dolci e vigili, dalle corna incurvate in spirali maestose, e intanto cercano di custodire gli affetti di una vita coniugale sobria e pacifica. Leggono libri, ascoltano musica colta. Forse una perdita infantile li ha colpiti. Sono un uomo e una donna soli, con il loro cane (chiamato «ragazzo») e un gatto asociale.
Nel tempo del parto, gli ovini vengono assistiti con competenza e dedizione. Un giorno nasce, però, un agnello strano. Noi spettatori di Lamb (Islanda, 2021) non ne vediamo in un primo tempo le fattezze, salvo il bel muso ovino, e questo nascondimento imprime una suspense ipnotica al racconto, che assumerà toni di fantasy/horror. I due pastori si guardano negli occhi meravigliati e spaventati e, dopo qualche attimo di titubanza, decidono di averne cura. L’agnello (lamb in inglese), che riceve il nome di Ada, viene scaldato con una coperta dal collo in giù e portato in braccio, riceve latte da un biberon, vive in casa, si riposa sul divano, dorme in un lettino, mostra due occhi curiosi e uno sguardo riconoscente. I pastori chiamano Ada per nome e si affezionano a lei al punto da respingere duramente i belati prevedibilmente dolorosi di una pecora adulta, che vuole con sé Ada nella stalla, tra gli altri agnellini. Istinto materno contro istinto materno.
Intanto i giorni passano in un’implausibile, glaciale normalità. L’agnello si umanizza. Gli umani lo riconoscono figlia ed empatizzano con i suoi vissuti animali. Come una bambina affettuosa e incantevole, Ada impara presto a esprimere e gestire i suoi muti bisogni e a comprendere i segni corporei e i comandi verbali dei due pastori e del libertino fratello di lui, che viene a trovare la coppia e dovrà far fronte a un’imbarazzante, arcana sorpresa. Cercherà di scuotere l’ovvietà di quel rapporto, ma vi si dovrà adattare. Animali umani e animali non umani. Convivenza e violenza. Gli umani feriscono le orecchie dei montoni per numerarli, mangiano carne e la fanno da padroni. La cinepresa mostra invece dal basso la dignità di bestie timide e intuitive, mansuete e precise. Chi viene prima? L’uomo? Gli animali che conosciamo? O quelli prodigiosi che i medioevali scolpivano sulle cattedrali, perché nella sua fantasia il Dio di Genesi ha pensato e forse modellato infiniti altri mondi? E per tornare al nostro mondo, quale destino attende l’astuta creatura umana che non rispetta le differenze e che impone la sua signoria col fucile? Chi trattiene per sé la vita che sorge l’ha già persa e la violenza della natura si ritorcerà sull’empio.
Il miracolo del primo giorno
Questa sorta di fiaba nordica per adulti, scandita in tre geometrici capitoli, immagina che prima delle diversità di specie esistessero animali ibridi, che si nascondono ancora tra i ghiacci. La loro intelligenza è pari alla forza istintiva. L’orgoglio di gruppo pretende il rispetto delle antiche leggi fraterne di tolleranza ed equità tra esseri diversi. Ogni tanto tra le comuni pecore nasce un eletto, concepito dallo spirito di un dio animale. È il miracolo del primo giorno, del primo Natale.
Guardiamo Lamb e ricordiamo l’enigmatica iconografia del quadro di Lorenzo Lotto, Natività (1530): due pastori, due angeli, Maria (come nel film!) e Giuseppe contemplano nella capanna due soggetti che giocano felici: il Bambino e l’agnello. Il Bambino seminudo e supino carezza il muso dell’animale da sotto in su. L’agnello alza eccitato una zampa, come se volesse carezzarlo a sua volta, ed è trattenuto dalle mani delicate ma ferme dell’elegante pastore. È una coppia di cuccioli che scopre, nella reciproca fiducia, la sensuale morbidezza delle proprie carni. Forse è un’unica figura. È l’uomo-agnello. Il cucciolo d’uomo scopre che l’agnello gioca come lui; l’agnello si lascia toccare senza paura, perché intuisce che quel Bambino lo conosce naturalmente.
In un agnello viene l’Uomo, che toglierà i peccati del mondo. In un uomo vive l’Agnello, quello senza macchia, quello che s’immolerà consapevole a beneficio di tutti. In origine era l’unità felice tra abitanti del Creato. La brama di possedere solleva, invece, interrogativi etici inquietanti. Gli umani sono pronti al sacrificio altruista? L’agnello sarà ospitato come un amico, oppure verrà usato per colmare un vuoto affettivo o abusato come capro d’espiazione al dio invidioso?
Gli uomini vivono reclusi in un tempio di operosa bellezza, strappando erba alla terra e lana alle greggi. Ma la monotona sicurezza della loro esistenza non è garantita. Un evento miracoloso li mette allo scoperto, li eccita nelle passioni, alimenta sogni imprevisti. Tutto il film Lamb è come l’incubo di una donna in gravidanza che immagina un figlio mostruoso (nel senso latino di prodigio che ammonisce) e si impegna a fargli posto dentro di sé, nel proprio grembo psichico, a costo di svalutare la dura realtà del giorno e dimenticare il partner. La pulsione generativa precede quella sessuale. Siamo al mondo per mettere al mondo. Qualcuno. Qualcosa.
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