Negli anni Venti del XIX secolo, la pittura «dal vero» aveva già portato il veronese Giuseppe Canella nella foresta di Fontainebleau, e poi a esporre i suoi lavori a Parigi. In Francia arrivarono anche Massimo d’Azeglio, Gabriele Smargiassi, Beniamino de Francesco, il paesista Consalvo Carelli, e Giuseppe Palizzi, uno dei più importanti pittori di animali. Egli si stabilì a Passy, nei pressi della foresta di Fontainebleau, e lavorò accanto ai pittori della scuola di Barbizon. Ma fu l’irripetibile stagione delle Esposizioni universali a imprimere un’accelerazione alla circolazione degli stili, e anche a quella degli artisti e dei mercanti internazionali. L’Esposizione universale del 1867 richiamò a Parigi oltre 15 milioni di visitatori. Tra questi, anche numerosi pittori e scultori italiani. Si consolidò così l’epopea degli italiani di Parigi, raccontata al Castello Visconteo Sforzesco di Novara dalla mostra «Boldini, De Nittis et les italiens de Paris», organizzata dall’Associazione Mets-Percorsi d’arte, dal Comune di Novara e dalla Fondazione Castello di Novara, e curata dalla storica dell’arte Elisabetta Chiodini .
Una novantina di opere, provenienti da collezioni pubbliche e private, e suddivise in otto sezioni, raccontano il lavoro dei pittori italiani di maggior successo, attivi nella Parigi del secondo Ottocento e del primo Novecento. «Agli appassionati d’arte di tutta Europa, nel 1867 Parigi offriva anche altre tre mostre: le personali di Gustave Courbet ed Édouard Manet, e nelle gallerie del Palais de l’École imperiale des Beaux-Arts la grande retrospettiva di Ingres, maestro amatissimo scomparso nel gennaio di quello stesso anno – ricorda Chiodini nel catalogo della mostra di Novara –. Una passeggiata lungo gli Champs-Élysées, una visita all’Esposizione universale, una pausa seduti al tavolo di un caffè alla moda, prima di gettarsi nuovamente a capofitto nelle sale dell’Exposition Courbet e dell’Exposition particulière di Monsieur Manet». Nella capitale del lusso e delle mode, anche il mercato dell’arte era in continua crescita. «Intraprendenti mercanti d’arte contemporanea, francesi, inglesi, tedeschi, olandesi facevano a gara per assicurarsi le opere di giovani artisti promettenti, riuscendo, spesso, a convincerli a stipulare contratti in esclusiva, diventandone i diretti intermediari con i compratori, europei e americani, e il loro gusto estetico».
Giovanni Boldini
L’artista ferrarese giunse a Parigi nel giugno del 1867, anch’egli in occasione dell’Esposizione universale. Proveniva da Firenze, dove si era trasferito. Aveva 25 anni. Si fermò nella capitale francese per un paio di settimane. Come tutti i giovani ambiziosi, sognava di fare fortuna. Il clima artistico e le opere viste furono per lui una calamita. Il ritorno a Firenze fu assai deludente. Non vedeva l’ora di ripartire. Ma tornerà a Parigi «solo quattro anni più tardi, alla fine della sanguinosa guerra francoprussiana, nell’ottobre del 1871, dopo aver soggiornato qualche mese a Londra dove era giunto a fine maggio in compagnia di Friedrich Reitlinger, il mercante tedesco conosciuto l’anno prima a Firenze», come ci informa Elisabetta Chiodini. Boldini non ci impiegò molto ad abbandonare Reitlinger per mettersi sotto l’ala protettrice di un altro mercante d’arte, Adolphe Goupil. La seconda calamita fu Berthe, una donna a cui Boldini non poté rinunciare. Trovò uno studio a Montmartre. Lavorava molto. Si divertiva. Ormai Parigi l’aveva conquistato per sempre. Boldini era arrivato in Francia come ritrattista, ma si adeguò alle richieste del collezionismo borghese.
Maturò la stessa consapevolezza anche il suo collega Giuseppe De Nittis. Il gusto dell’epoca era assai vario: dal paesaggio al ritratto, alla pittura in costume, come quella di Mariano Fortuny «esponente di punta di quella seducente e ricercata pittura ideata e portata al successo già negli anni Quaranta da Ernest Meissonier: piccole scene di genere che con precisione cristallina descrivevano le occupazioni comuni di gentiluomini seicenteschi e settecenteschi» o scene di vita militare. A questo genere appartengono due opere di Boldini, Vecchia canzone e Due signore con pappagallo, che conquistarono soprattutto i collezionisti americani tanto che ne farà anche in seguito numerose varianti. Ma quando questa tendenza della pittura cominciò a perdere smalto, l’artista ferrarese «iniziò a confrontarsi con le vedute cittadine della Parigi moderna» e a rinnovare la propria ritrattistica. «Abile e vivace conversatore, preferiva accostarsi alla dimensione intima di chi doveva ritrarre, chiacchierando amabilmente per ore e ore tra le pareti del proprio atelier. Così, signore e signorine dell’alta società gli confidavano pensieri, sentimenti, esperienze e segreti».
Giuseppe De Nittis
Era l’estate del 1867 quando l’artista pugliese di Barletta arrivò nella Ville Lumière. Poco più che ventenne, era avido di conoscenze. Nemmeno lui si perse l’Esposizione universale che gli consentì di riflettere sulle tendenze dell’arte contemporanea. Conobbe anch’egli il pittore Ernest Meissonier. De Nittis riconobbe che in Francia si respirava il progresso: «Questo popolo n’è fanatico. Ama il primato, ma con sacrificio. V’è lavoro e ricompensa», scrisse all’amico scultore Adriano Cecioni. Incontrò l’influente mercante d’arte Adolphe Goupil e riuscì a vendergli alcune sue opere a un prezzo incoraggiante. De Nittis tornò in Italia per un breve periodo, ma l’anno seguente era di nuovo nella capitale francese. Questa volta non fu solo l’arte a trattenerlo, ma anche l’amore per Léontine Gruvelle che sposerà nell’aprile del 1869. Andranno a vivere nel cuore di Montmartre.
La vendita delle opere Visita dall’antiquario, La signora dei pappagalli, De Nittis e Fortuny nello studio di Meissonier, Amatori di stoffe, Moschettieri consentirono a Giuseppe e a Léontine di prendere in affitto una villetta a Jonchère, nei pressi di Bougival, «per trascorrervi la primavera e l’estate. Immerso nei boschi e non lontano dal fiume. Tutto sembrava perfetto. Comprese le rive della Senna. I colori erano quelli della giovinezza, come il verde. A Jonchère tenevano la tavola imbandita e ospitavano tutti coloro che andavano a trovarli». De Nittis vi trascorse con la moglie due estati. Poi la guerra franco-prussiana li costrinse a tornare in Italia. Ma per sancire il proprio legame con Parigi, ripromettendosi di ritornarci appena possibile, De Nittis acquistò a rate un villino nei pressi del Bois-de-Boulogne. Nel 1872 sottoscrisse un contratto in esclusiva con Goupil. Inviò le sue opere a Parigi. In particolare una «straordinaria serie di dipinti e impressioni dal vero che De Nittis eseguì salendo e scendendo ogni giorno sul Vesuvio pieno d’entusiasmo», ci ricorda Elisabetta Chiodini. De Nittis tornò a Parigi all’inizio del 1873 con Léontine e il piccolo Jacques. Nei suoi lavori coniugò il talento di paesaggista e quello di pittore della vita moderna.
Storia, Oriente e folklore
Anche il fiorentino Raffaello Sorbi lavorò per il mercante Goupil. Il suo percorso artistico appare come un ragionato viaggio nel tempo poiché realizzò scene ambientate in epoche diverse: «dalla Roma antica alla Firenze medioevale, alla campagna toscana del Settecento». Sorbi era così impegnato che la sua stanza rimaneva vuota poiché le sue opere, appena completate, prendevano subito la destinazione del suo principale committente a Parigi, prima di finire nella casa di un collezionista o di un facoltoso cliente inglese, americano o russo. Il napoletano Eduardo Tofano era invece affascinato dall’Oriente, e divenne uno dei più apprezzati artisti di Parigi. Così come Alberto Pasini di Busseto (Parma), giunto a Parigi nel 1851. Lavorò accanto a rinomati paesaggisti e ritrattisti. Quattro anni dopo, fece il primo viaggio in Oriente: Egitto, Persia, Armenia. Successivamente visitò Palestina, Libano, Turchia, Arabia, Siria. I suoi dipinti erano anche il frutto di studi e disegni. L’Oriente di Pasini non era un’alchimia di suggestioni e fantasie, ma era quello reale, mediato solo dai colori e dal talento della sua mano.
Dagli anni Settanta, anche l’artista napoletano Domenico Morelli si ispirò all’Oriente e al mondo dell’islam pur non recandosi mai in quei luoghi. Ma vi si avvicinò attraverso letture erudite e una curiosità mai sazia. Studiò il Corano e il Vangelo. L’ispirazione orientale non risparmiò nemmeno l’alessandrino Eleuterio Pagliano, la cui creatività si spinse fino all’oceano Pacifico, intercettando i collezionisti di japonaiseries, conquistati dal fascino del Sol Levante proprio grazie all’Esposizione universale del 1867 dov’era presente anche il Giappone. Pure l’Italia esercitò su galleristi, mercanti e collezionisti – soprattutto europei e americani – un certo fascino, in particolare il folklore italiano e le feste religiose del nostro Mezzogiorno. Il principale interprete di questa tendenza fu il pittore abruzzese Francesco Paolo Michetti, ancorché una parte della critica avesse accusato la sua pittura di essere sì affascinante, ma anche commerciale. In rapporti con l’immancabile Goupil furono anche l’artista umbro Alceste Campriani e quello piemontese Carlo Pittara.
Zandomeneghi e Corcos
A Parigi arrivarono anche il veneziano Federico Zandomeneghi e il romano Antonio Mancini. Nel 1874, Zandomeneghi, in due mesi, si fece un’idea precisa del clima artistico in Francia, e anche delle sue conseguenze. Pur ammirandone la grandezza, il veneziano si risolse a pensare che una volta individuata una tendenza o un gusto, gli artisti poi vi si adeguassero per soddisfare la domanda della committenza, a dispetto della ricerca e dell’originalità. Questo non impedì a Zandomeneghi di trovare il proprio posto tra gli artisti italiani che operavano oltralpe. Non se ne andò più da Parigi, anzi «cercò di lavorare rimanendo fedele a se stesso e al proprio desiderio di continuo rinnovamento e libertà creativa che lo aveva portato a recarsi in Francia. Per avere il denaro sufficiente a soddisfare le proprie necessità, lavorò anche come figurinista per una rivista di moda. Riuscì sempre, con grande sapienza, a licenziare dipinti di grandissima qualità e raffinata eleganza».
L’esperienza di Antonio Mancini (nel 1875 e poi tra il 1877 e il 1878) fu invece breve e sofferta, pur essendo egli arrivato ai mercanti d’arte Reitlinger e Goupil. Nei suoi dipinti c’erano i ricordi legati al suo periodo di formazione a Napoli, al Regio Istituto di Belle Arti. «I suoi scugnizzi, i suoi interni poveri e sporchi sono reali, sono vissuti, sono sentiti e sofferti – osserva Elisabetta Chiodini –. Non sono certo questi i soggetti che potevano attirare i collezionisti, né parigini né americani, i quali preferivano arredare le loro abitazioni con vivaci scene di genere alla Meissonier». Mancini aveva appreso la lezione di Caravaggio e dei pittori del Seicento napoletano. Dipingeva con spontaneità e immediatezza. Ma questo non gli garantì il successo.
Altra storia quella del livornese Vittorio Matteo Corcos. A Parigi rimase per poco più di due anni. All’inizio, per sbarcare il lunario si adattò a dipingere ventagli e a venderli ai negozianti della città. Poi un giorno si presentò a casa di Giuseppe De Nittis e iniziò a frequentarne il salotto. Conobbe Degas, Manet, Gustave Caillebotte, Zola, Edmond de Goncourt, lo scrittore Alphonse Daudet e l’immancabile mercante Goupil. La sua condizione migliorò. Nel 1881 il pittore si trasferì a Montmartre. Come Boldini e Degas, frequentò l’elegante stazione balneare di Enghien-les-Bains, nella Val-d’Oise, tra le mete più apprezzate dal jet set parigino. Corcos non smise mai di aggiornarsi e di perfezionarsi. Dipingeva 18 o 20 ritratti all’anno. Talmente somiglianti da sembrare fotografie. Con un segreto rivelato dallo stesso Corcos: «Se non conosco prima l’uomo o la donna a cui devo fare il ritratto, se non mi invitano loro a colazione, li invito io. Ma ho bisogno di mangiare col mio modello» per comprenderne «tratti fisici e morali» e «scegliere spontaneamente i migliori, invece che i peggiori» restituendo così «al cliente un’immagine di se stesso che lo faccia più felice».